Agosto. Le badanti vanno in vacanza - almeno per un po'. E così a ridosso di ferragosto è toccato a me portare a spasso la mia mamma. Spingere la sua carrozzina per le strade della periferia. I viali sono assolati in agosto. Quest'anno poi è più caldo che mai. Il più caldo della storia umana. E in questo caldo qualcuno ha pensato di sfrondare le chiome degli alberi più ombrosi.
Mia madre ripete cento volte al giorno che la vita è uno schifo. Da quando hanno tagliato le chiome delle piante lo ripete venti volte in più. 120 volte al giorno.
Meno male che c'era un cane.
Non so quanto tempo sia durato il cane. È comparso una sera, d'improvviso, nel viale che porta al ricovero dove mia mamma va a messa quasi tutti i giorni. Un bel cane, con il pelo lustro. Un pastore tedesco con un pedigree non tanto puro. Forse con un po' di sangue levriero. Il mantello aveva una base crema tendente al rossiccio, con il dorso nero.
Mia mamma dalla sua carrozzina l'ha subito notato - nota tutto lei, anche i più insignificanti oggetti lungo la strada. Figuriamoci se si lasciava sfuggire il cane. «Non sembra abbandonato» - mi ha detto mentre la spingevo lento e stanco ai bordi del viale. E invece a me sembrava di sì. Lo si vedeva da come sfuggiva al contatto con gli esseri umani. Da come attraversava di corsa la strada, guardingo.
L'abbiamo visto ogni giorno per almeno una settimana. Mia mamma gli si era affezionata, anche se lo vedeva solo per qualche momento. Malediceva meno la vita, forse una decina di volte in meno - soltanto perché incontravamo il cane.
Così io pregavo che continuassimo a incontrarlo. «Dacci oggi il nostro cane quotidiano».
Una sera ha provato a chiamarlo. «Argo!». Non so come le sia venuto in mente di chiamarlo così. Ma il cane, dall'altra parte della strada, si è fermato. Ha drizzato le orecchie e ha iniziato a scodinzolare. Anche mia madre ha voluto fermarsi, di qua, dall'altra parte del viale. Il cane la guardava, fiducioso. Poi qualcuno dal giardino di una villa gli ha tirato una pietra. È sparito correndo a fianco del campo sportivo. L'ultimo ricordo che ne ho è una macchia di colore in fondo al muro scrostato del campo.
Due giorni dopo mia mamma, che era sul terrazzo, mi chiama. Indica una signora ferma sotto il terrazzo di casa sua, intenta a parlare con un'altra donna. La signora stava parlando di un cane morto, investito da un'auto. Un cane abbandonato. Una bella bestia. Ma morta, ormai.
Di un incontro possibile non è rimasto niente. Solo un'altra assenza, cristallizzata nel ricordo.
La carrozzina sul viale non si fermerà più. Non per parlare a un cane.
sabato 26 agosto 2017
mercoledì 16 agosto 2017
Nonne sull'orlo di una crisi di nervi
Ok, montagna. Unica occasione di ferie: un giorno sulle Alpi piemontesi. Un paese che non dico - e che non è il mio. Sono lì con un amico alle sette di mattina. Un amico che vedo una volta l'anno e che è amico lo stesso. Saliamo su per circa 1000 metri di dislivello fino quasi a quota 2000. Ce la prendiamo comoda. Parliamo poco, ma ci capiamo lo stesso. Camminiamo per tre ore e mezza.
Ne è valsa la pena. La giornata è bella, il panorama fantastico. Qualche foto - malriuscita. Come fotografo faccio pena. Mangiamo un panino e riprendiamo la via della discesa.
Ma tutto questo non interessa a nessuno.
Quando siamo di ritorno nel nostro paese di partenza sono quasi le due di pomeriggio. Prima di salire in macchina ci riposiamo un po' sulle panche in piazza. Vicino alla fontana. Con in mano la borraccia.
In questa piccola piazza di paese. Deserta. Solo una manciata di auto parcheggiate ai bordi.
C'è un bambino. Avrà cinque o sei anni. Pantaloni corti rossi. Canottiera blu. Sandali ai piedi. Pedala avanti e indietro in bicicletta, senza rotelle. Velocissimo. Troppo veloce. Cerca il sole, sembra che ne insegua i raggi.
Da una delle case in ombra esce una vecchia. Cammina un po' storta. Ma va veloce anche lei.
Si avvicina al bambino e lo chiama per nome. Amos!
Il bambino nemmeno la guarda, continua a correre con la bici. Zigzaga fra le auto. Fa la gimcana tra le panchine. Dove siamo seduti noi, sì, stanchi stravolti e forse anche un po' penosi: ma lui nemmeno ci vede. Ha altro per la testa.
Aaaaaaaaaaaamos! La nonna - perché quello deve essere, la vecchia: la nonna di Amos - arranca per la piazza, con una mano appoggiata sull'anca destra e l'altra che cerca di afferrare nell'aria degli invisibili fili.
Come se Amos fosse una marionetta. Bisogna solo tirare il filo per fermarlo.
Ma il filo non si trova. La nonna urla ad Amos che non deve lasciare solo suo fratello Elia. Dov'è Elia, si può sapere.
Amos senza fermare la corsa le urla: non sono mica il guardiano di mio fratello.
Io seduto sulla panchina ho un sussulto. La borraccia mi sfugge di mano.
La nonna non si scompone, invece. Torna alla carica. Che fine ha fatto - urla - tuo fratello?
Elia sta giocando - grida il bambino, mentre sfiora una Panda parcheggiata davanti alla chiesa.
Poi si lancia contro un cane comparso all'orizzonte, in direzione del cimitero.
La nonna si appoggia entrambe le mani alle anche. Gonfia il petto e lo sgrida. Non mi rispondere così, Amos!
Aaaaaamos...
Ma Amos è sparito. Anche il cane è sparito. La piazza piomba in un silenzio irreale. Poi si sente un guaito. Il lamento di un cane. Laggiù, verso il cimitero.
La nonna è sola in mezzo alla piazza. Batte ritmicamente con le mani sulle anche. Tormenta le tasche del suo scamiciato a fiori. Viola e nero, con qualche chiazza di rosso. Chissà cosa cerca, in quelle tasche.
Poi si gira verso di noi. Sospira, alza entrambe le mani al cielo. Ed è al cielo che si rivolge. Urla: che testa di cazzo. Riferito al bambino, ovviamente.
E ovviamente noi torniamo in città.
Ne è valsa la pena. La giornata è bella, il panorama fantastico. Qualche foto - malriuscita. Come fotografo faccio pena. Mangiamo un panino e riprendiamo la via della discesa.
Ma tutto questo non interessa a nessuno.
Quando siamo di ritorno nel nostro paese di partenza sono quasi le due di pomeriggio. Prima di salire in macchina ci riposiamo un po' sulle panche in piazza. Vicino alla fontana. Con in mano la borraccia.
In questa piccola piazza di paese. Deserta. Solo una manciata di auto parcheggiate ai bordi.
C'è un bambino. Avrà cinque o sei anni. Pantaloni corti rossi. Canottiera blu. Sandali ai piedi. Pedala avanti e indietro in bicicletta, senza rotelle. Velocissimo. Troppo veloce. Cerca il sole, sembra che ne insegua i raggi.
Da una delle case in ombra esce una vecchia. Cammina un po' storta. Ma va veloce anche lei.
Si avvicina al bambino e lo chiama per nome. Amos!
Il bambino nemmeno la guarda, continua a correre con la bici. Zigzaga fra le auto. Fa la gimcana tra le panchine. Dove siamo seduti noi, sì, stanchi stravolti e forse anche un po' penosi: ma lui nemmeno ci vede. Ha altro per la testa.
Aaaaaaaaaaaamos! La nonna - perché quello deve essere, la vecchia: la nonna di Amos - arranca per la piazza, con una mano appoggiata sull'anca destra e l'altra che cerca di afferrare nell'aria degli invisibili fili.
Come se Amos fosse una marionetta. Bisogna solo tirare il filo per fermarlo.
Ma il filo non si trova. La nonna urla ad Amos che non deve lasciare solo suo fratello Elia. Dov'è Elia, si può sapere.
Amos senza fermare la corsa le urla: non sono mica il guardiano di mio fratello.
Io seduto sulla panchina ho un sussulto. La borraccia mi sfugge di mano.
La nonna non si scompone, invece. Torna alla carica. Che fine ha fatto - urla - tuo fratello?
Elia sta giocando - grida il bambino, mentre sfiora una Panda parcheggiata davanti alla chiesa.
Poi si lancia contro un cane comparso all'orizzonte, in direzione del cimitero.
La nonna si appoggia entrambe le mani alle anche. Gonfia il petto e lo sgrida. Non mi rispondere così, Amos!
Aaaaaamos...
Ma Amos è sparito. Anche il cane è sparito. La piazza piomba in un silenzio irreale. Poi si sente un guaito. Il lamento di un cane. Laggiù, verso il cimitero.
La nonna è sola in mezzo alla piazza. Batte ritmicamente con le mani sulle anche. Tormenta le tasche del suo scamiciato a fiori. Viola e nero, con qualche chiazza di rosso. Chissà cosa cerca, in quelle tasche.
Poi si gira verso di noi. Sospira, alza entrambe le mani al cielo. Ed è al cielo che si rivolge. Urla: che testa di cazzo. Riferito al bambino, ovviamente.
E ovviamente noi torniamo in città.
domenica 6 agosto 2017
La badante giusta
Nel corso di
questi due anni molte sono le badanti che si sono date il cambio ad assistere
mia mamma. Molte quelle che si sono fermate appena qualche giorno. Moltissime
poi quelle che abbiamo incontrato solo per qualche ora, giusto il tempo di una
fugace conoscenza. Non riesco più a ricordarle tutte.
Ma una mi è
rimasta impressa. Aveva saputo che stavo cercando una badante e mi ha
telefonato per presentarsi. Ci siamo messi d’accordo: va bene stasera?
Perfetto. Fissiamo ora e luogo: 19.30 a casa di mia madre.
Con voce un po’
rauca la avviso che forse mia madre è
un caso difficile. Non l’avessi mai fatto. La ragazza – dalla voce mi sembra
giovane, e adesso anche stizzita – dice che
«non celai anziana difficile, celai solo badante giusta. Io badante giusta».
Non oso dire più
niente. Deglutisco e le dico ciao. Non le chiedo neanche come si chiama e di
che nazione è. Tanto è quella giusta.
Arrivano le 19.30.
È estate, fa caldo. La candidata badante arriva. Elegante, ma sportiva. Bionda,
giovane, simpatica. A mia mamma piace subito. Ci ritiriamo a discutere in
studio e le propongo il contratto. Accetta subito, tutto a posto. Sorrido,
Cominciamo domani, ok? Ok.
Poi però si gira.
«E quello che cos’è?». Indica un vistoso attrezzo meccanico che occupa mezzo
studio.
«Quello è un
montascale a cingoli – le spiego didattico – devi usarlo per fare scendere mia
mamma…».
La vedo
accigliarsi. Si aggiusta i braccialetti di legno che porta alla sinistra. Si
tocca il naso. Si siede sul divano. Posa le mani sulle ginocchia. Mi guarda.
«Po-possiamo
provarlo subito» - azzardo. Lei non dice niente ma fa segno di sì con la testa.
Stacco il montascale dalla presa di corrente, lo accendo con la chiavetta e
comincio a portarlo verso il vano scale. Lei mi segue, osserva e fa domande.
Carichiamo la
carrozzina con mia mamma e cominciamo a scendere. Prima che siamo arrivati al
primo pianerottolo, la «badante giusta» ha già un colorito piuttosto pallido.
Non arriveremo mai in fondo con lei. Comincia a mettersi le mani nei capelli e
a urlare.
«Ma cosa c’è?» le
chiedo.
«Io vedo signora
morta. Troppo pericoloso».
«Ma se so farlo
persino io…» .
«Certo. Tu uomo.
Addio».
E fugge verso
corso Italia, sempre urlando.
Torna, però, dopo
alcuni minuti. Quando ormai siamo fuori anche noi in strada e il montascale non
le fa più paura. Mi ignora, tanto «io uomo».
Parla con mia
madre e le dice che se vuole verrà a trovarla. Parla dolce, con tenerezza.
Mia madre nemmeno
la guarda. Però le urla: «Scì ch’o m’òn fä a mi. Sta-t-òn a ca toa, tërdòca…».
E fa bene mia mamma ad usare il violese.
Nemmeno so di che nazione sia, la «badante giusta».
mercoledì 2 agosto 2017
La cura...
...e non è la canzone di Battiato. Solo l'inizio di una serie di post. Potendo, ne scriverò uno ogni tre giorni. Sempre sullo stesso tema: la cura.
Da anni, a vario titolo, curo mia madre. Adesso ha ottant'anni. Dal 2015 non riesco più a curarla da solo. E dal 2015 mia madre è assistita da due badanti. Una per il giorno, una per la notte.
In due anni questa assistenza mi è costata tantissimo, in termini economici.
Ma mi ha dato l'occasione di vivere esperienze umane di ogni tipo. In questi brevi post cercherò di fare il punto su queste esperienze. Per piangere. Per ridere. Per riflettere. Perché non tutto vada perso. Per condividere, semplicemente.
Da anni, a vario titolo, curo mia madre. Adesso ha ottant'anni. Dal 2015 non riesco più a curarla da solo. E dal 2015 mia madre è assistita da due badanti. Una per il giorno, una per la notte.
In due anni questa assistenza mi è costata tantissimo, in termini economici.
Ma mi ha dato l'occasione di vivere esperienze umane di ogni tipo. In questi brevi post cercherò di fare il punto su queste esperienze. Per piangere. Per ridere. Per riflettere. Perché non tutto vada perso. Per condividere, semplicemente.
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